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I limiti che liberano la reputazione di una brand

·431 parole·3 minuti

Spiegare ad un’azienda l’importanza della cura della propria immagine non è un impegno semplice. Tutti i membri attivi di una complessa macchina aziendale, a prescindere dal ruolo e dalle responsabilità, dovrebbero tenere a cuore la percezione dell’immagine della realtà in cui lavorano, del marchio che rappresentano confrontandosi con l’esterno, della reputazione della propria azienda con clienti, fornitori e terzi: non succede mai.

Autonomia e anarchia regnano sovrane, ogni dipendente si comporta come crede sia più giusto, e a noi tocca mestamente ma orgogliosamente porre dei limiti alla creatività di impiegati intraprendenti, placare le iniziative di manager spericolati, livellare la fecondità del fermento artistico di fornitori arditi: loghi schiacciati, scoloriti, irriconoscibili; documenti testuali camuffati da presentazioni con l’aggiunta di immagini GIF del secolo scorso; documenti ufficiali impaginati in maniera spaventevole; firme alla posta elettronica bizzarramente personalizzate. Che disastro!

Non è naturale mettere dei paletti, ce ne rendiamo conto, soprattutto se chi li pianta è un consulente esterno, ma spesso è necessario, ed è ciò che traccia meglio di altro il percorso per la consolidazione o l’affermazione della reputazione di una marca.

Il nostro ruolo, quando un cliente ci affida la responsabilità di curare la rappresentatività della propria azienda, è anzitutto quello di costruire dei recinti, di alzare dei cancelli e definire in modo puntuale quello che tutti gli attori aziendali possono e non possono fare col logo, col marchio, col pay-off e con tutti gli elementi componenti l’identità aziendale. Recinti che salvaguardano, se rispettati, il credito del marchio, che tutelano le fondamenta della riconoscibilità e dell’autorevolezza aziendale, basi solide sulle quali fondare una comunicazione all’altezza del prestigio raggiunto o da raggiungere.

Sembra assurdo, no? Chiudere e non aprire, bloccare e non liberare, riservare e non concedere. Credo sia l’unico caso, tra tutti i processi nei quali ci troviamo a lavorare, dove pare evidente l’assenza di flessibilità, e la predominanza di un secco “no” risulta sovrastare la morbidezza di un più permissivo “sì”.

Come con i bambini, educare con i “no” - puntuali, rigidi, giusti e giustificati - aiuta l’azienda a crescere, a prendere coscienza di sé, a tracciare il proprio percorso di brand. No all’uso improprio del marchio, no al font clownesco, no alle firme simpatiche. No, no, no alle storpiature del nome, e no a presentarsi senza un’identità ben definita. No, che se ne dica: no.

Senza linee guida stabili e puntuali, senza avere la consapevolezza del proprio valore di marca, senza la sicurezza di non ledere alla propria immagine non si può costruire la corretta sensibilità necessaria per potersi sentir rispondere, sempre, da qualsiasi consulente ed in maniera convinta: sì.