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Dove ci rifuggiremo

·313 parole·2 minuti


Questo articolo di Ian Bogost
, tradotto da Internazionale, l’avevo nella lista dei post da leggere su Pocket dallo scorso febbraio 2020. Sono passati quasi due anni, sono riuscito a leggerlo solo di recente: quanto mi sembra antico. L’idea era che grazie allo, o per colpa dello, smartphone, il lavoro ce lo portiamo ovunque, soprattutto a casa: chi lo avrebbe mai immaginato che, nelle settimane immediatamente successive, avremmo lavorato soprattutto da casa.

Il problema dei nostri antenati si è capovolto: la casa è diventata una prigione di comodità da cui possiamo scappare solo se qualcuno ci aiuta a farlo.

La casa era ancora un non luogo, un posto di passaggio dove non vivere la nostra vita, un porto e non la nave. Un rifugio. Chi ci restava sceglieva di farlo, spesso per rifugiarsi nei milioni di contenuti disponibili online e fruibili tramite i propri dispositivi personali. Poi il Covid-19.

Come diceva Augé, la gente è sempre a casa, e contemporaneamente non c’è mai.

Ora a casa ci lavoriamo. E lavoriamo ovunque.

Un tempo l’espressione “portarsi a casa il lavoro” significava trasportare fisicamente il lavoro dall’ufficio: documenti all’interno della ventiquattr’ore e liste con le telefonate da fare chiusi nello studio. Oggi è solo un modo per indicare un’attività più concettuale e olistica. Grazie ai computer portatili, agli smartphone, alla banda larga, alle applicazioni e ai servizi cloud, chiunque può lavorare in continuazione: mandare email da sotto il tavolo da pranzo, rispondere a messaggi su Slack dopo aver chiuso la portiera dell’auto e prima di aver aperto il portone di casa, analizzare le spese familiari fotografando gli scontrini sul ripiano della cucina.

Per quanto  non mi piaccia lavorare da casa, la fortuna è che ci siano stati computer portatili, smartphone, banda larga, applicazioni e servizi cloud. Sarebbe stata una catastrofe, altrimenti.

Ma dove ci rifuggiremo in futuro — pandemie permettendo — per scappare dai nostri impegni?