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Facciamo ancora i compiti

·620 parole·3 minuti

L’amico  Nicola, col quale è nata una bella corrispondenza via Telegram,  ha replicato in maniera laterale al mio  recente post sui compiti di Bimba, riflettendo sia sulla tipologia di ricerca propedeutica alla scoperta di un problema che sulle modalità con le quali, oggi, a scuola si studiano le stesse cose che studiavamo noi ma in in modo assai lontano dal nostro.

Io, invece, mi sono soffermato sul fatto che è mancato alla ricerca quell’elemento analogico proprio del ricercare una informazione. Alla base del ragionamento algoritmico. I duemila algoritmi di ‘sort’ (ordinamento) sono legati all’esperienza fisica dell’elenco telefonico, del vocabolario, dell’enciclopedia.

E mi son chiesto se sia un bene far fare questi salti logici ai bambini, come vedo insegnare le operazioni di base della matematica ai miei nipoti con metodi lontanissimi dai miei, con i concetti delle decine e della moltiplicazione o divisione astratti, di pura logica matematica, rispetto a noi che eravamo inondati di problemi di Pierino che va al mercato a far la spesa con tutte le varianti del caso.

Premettendo di non avere le competenze adatte a replicare i due punti in maniera professionale, la mia sarà una considerazione assolutamente personale, da tecnologo e da papà.

Per quanto riguarda le moderne modalità di insegnamento, mi viene scontato pensare che gli studi più recenti sull’educazione e sull’apprendimento avranno evidenziato che questi approcci, come giochi di logica o escamotage meccanici per la risoluzione di calcoli, siano di più rapida comprensione e memorizzazione. Consapevole che potrei ricadere nel tranello legato all’eccessiva fiducia che ripiego, romanticamente, nell’istituzione scolastica, do per certo che siano i criteri migliori per insegnare ai bambini e alle bambine le materie per le quali a noi toccava disturbare Pierino, sua madre e la sua maestra.

Sul tema analogico legato alla ricerca, invece, per quanto mi sia comportato diversamente, concordo: è inevitabile che il mio esercizio era un esperimento e, se vogliamo, il mio post una leggera provocazione. I compiti non li può svolgere un assistente vocale così come — in via generale — non può completarli un’intelligenza artificiale. In entrambi i casi ne perderebbero studentesse e studenti in esperienza, comprensione e coerenza, oltre che in genuinità nel rapporto che li pone giusto al centro tra la scuola e la famiglia.

Detto questo, due considerazioni a riguardo: anzitutto il gioco l’ho trovato utile e lo rifarei se applicato, come è stato, a risposte secche, a temi di natura umanistico-scientifica ma non a esercizi che prevedono risoluzioni, ragionamenti, riflessioni, come la matematica o la grammatica. Se fossero stati quelli, i casi, mia figlia non avrebbe imparato niente e, probabilmente, Google Assistant le avrebbe dato risposte incomprensibili, parziali e fuorvianti.

A mio avviso, però, nemmeno possiamo permetterci di demonizzare in maniera netta le tecnologie di supporto come gli assistenti virtuali, o le intelligenze artificiali, o tutti quelli modelli matematici e di machine learning applicati alla nostra esperienza di utenti e di essere umani. Le tecnologie per i bambini e per le bambine, come per gli adulti, sono un supporto: dovranno imparare a conviverci, dovranno conoscerle e saperle usare, dovranno imparare a chiedere a un home speaker, così come al prompt di un motore di ricerca qualsiasi (più o meno intelligente che sia), cosa cercano, di cosa hanno bisogno, su cosa possono avere suggerimenti.

Saper chiedere a un robot è, oggi, parimenti importante che sapersi leccare l’indice per sfogliare il Piccolo Palazzi: è acquisire competenze formative che serviranno sempre e in migliaia di contesti diversi.

La conoscenza nasce dallo stimolo all’approfondimento, alla curiosità e alla competenza: a mia figlia — e parlo solo per lei, viste le premesse — insegnerò, suo malgrado, il fine; sfogliare lemmi di un dizionario, ravanare il web o chiedere a una voce robotica, resterà solo un mezzo.